Scoop di “Repubblica” Scopre un affresco quindici anni dopo Sgarbi
Testo tratto dall’articolo originale su Il Giornale.
Fu una bella avventura, circa quindici anni fa (doveva essere l’estate del 2004) arrivare a Scarlino (in provincia di Grosseto) e seguire le piste di segnalatori locali e studiosi che, senza lasciarne tracce fotografiche, avevano indicato la presenza di una Crocefissione (fu Alessandro Bagnoli a scrivere la relazione per il provvedimento di vincolo, negli anni Ottanta), in un edificio civile di piccole dimensioni nel pieno centro della città, abitato da un personaggio pittoresco e intrattabile.
La Sovrintendenza, pur vigile, appariva remota, la casa irraggiungibile. Provai con il sindaco, giovane, appena eletto, Maurizio Bizzarri, che mi accompagnò, a mio rischio e pericolo, di essere respinto. Trovai invece un personaggio, insieme umiliato dalla vita come altrettanto esaltato dalla convivenza con lo spirito di un grande pittore che baluginava sotto l’intonaco. Apparivano in particolare, sul piano di calpestio del primo piano, dove eravamo saliti, volti di dolenti, e pie donne e la Vergine sotto la croce.
Al vedere un materasso buttato per terra, il portacenere con le cicche delle sigarette, i segni di una vita consumata, senza destino, si stabiliva una strana relazione con le tracce autorevoli del maestro che aveva affrescato la parete di un oratorio trasformato in abitazione. Questo nesso di arte e di vita fu per me più forte del ritrovamento dell’affresco e del suo proiettarsi in fieri verso quello che è avvenuto. Inviai così, a documentare quello stato di degrado e di esistenza, un fotografo di grande sensibilità, asciutto e distaccato, per documentare una situazione perfino impossibile da immaginare anche a un consumato performer, ma mai consumato abbastanza per uno scenario di vita come quello. E uscirono, allora, foto impeccabili che furono commentate in due articoli: uno di Paola Calvetti, grondante umanità e pathos, e uno, più distaccato, mio, sulla rivista Eleonora di Filippo Martinez. Noi documentammo un’epoca finita, perché il desolato abitante di quegli spazi pieni di grida, Luigi Novelli, è morto; e quelle anguste stanze, con più vaste porzioni di affreschi recuperate in un unico vano, hanno trovato nuova e diversa vita, quando, sulle mie piste, un volenteroso transfuga di Scarlino, dove resta la sua casa di famiglia, cresciuto a Londra, Andrea Sozzi Sabatini, ha deciso, con entusiasmo, di acquistare quella casa e di rianimarla. E tutto gli è sembrato subordinato all’impegno di restaurare gli affreschi. Gli avevo suggerito un esperto e silenzioso eremita, affine di carattere all’antico proprietario, Gianfranco Mingardi, che avrebbe continuato quel dialogo di spiriti senza pace. Sono state fatte altre scelte, e ora una molto più estesa superficie è stata recuperata. Non posso che compiacermi dell’impresa, anche se mi preme ricostruire i precedenti di una rivelazione annunciata. Un quotidiano nazionale, la Repubblica, ha infatti pubblicato con grande risalto questa «scoperta meravigliosa» con la aggravante di minimizzare precedenti di piena consapevolezza, sia pure nella difficoltà delle circostanze. Nulla di male, ma non corrisponde al vero la descrizione di questa importante testimonianza dell’arte senese del ‘400 come la «storia del capolavoro ritrovato per caso in un vecchio casale». Nessun caso e nessun casale. Una casa conosciuta, e una storia già raccontata anni fa su un altro giornale.
Dopo l’acquisto, correttamente, Andrea Sozzi Sabatini, mi cercò per comunicarmi, oltre il suo progetto, anche la sua gratitudine. Nel nuovo racconto la mia attenzione sembra quasi casuale. E la questione storico-artistica, non marginale, è sospinta in una dimensione favolosa dai confini indistinti: la «scuola di Simone Martini», la «maniera di Duccio», lo «stile di Lippo Memmi». Occorre ribadire, come già si intendeva quando l’affresco era visibile in una misura più limitata, che il pittore, certamente senese, si svolge qui, forse, nel quinto decennio del ‘400, ben lontano dagli artisti sopra citati, anche se il marcato espressionismo conduce verso la forte personalità, e la più drammatica tra le senesi, del Vecchietta, orientandoci, con buona approssimazione, verso il fratello, Giovanni di Pietro, discepolo di Domenico di Bartolo, di cui è in corso una mostra ad Asciano. Resterà per gli studiosi un tema appassionante, per l’inconfondibile caratterizzazione stilistica, l’individuazione di un maestro conosciuto, o anonimo, di esplicito espressionismo, più incisivo di Taddeo Di Bartolo e più antico di Matteo Di Giovanni: quello che ho provvisoriamente chiamato «maestro di casa Sozzi».